venerdì 22 agosto 2014

Perdere la guerra per vincere una battaglia

Questo post risale a circa tre mesi fa. Appena scritto e corretto, tutta felice lo mostro a mio marito - in attesa di essere gratificata e lodata per quanto sia cambiata (in meglio chiaramante!), come scriva bene, quanto lui sia contento di avermi al suo fianco, e tutte quelle parole che una donna si aspetta dal marito - e guai a lui se non le dice tutte! Diciamo invece che la sua reazione mi ha colto impreparata... "Non puoi pubblicarlo," mi dice. "Ma... come?" rispondo io. "Finalmente ho ripreso a scrivere quanto sia brava, e tu non vuoi farmi pubblicare?" aggiungo. "No. Prima devo parlare coi miei capi, sistemare alcune cose. Non puoi pubblicarlo." Fine della discussione. 
Direi che in casa i pantaloni li porta ancora lui. 

Finalmente le cose sono state sistemate, e posso così pubblicare le mie piccole avventure e scoperte - soprattutto per me, perchè rileggendo e guardando questa mia storia possa ogni giorno meravigliarmi di quanto grande sia questa vita. 
Ecco qui dunque.

Sono mesi che non scrivo. Eppure il piccolo Francesco, a cui questo blog è dedicato, è sempre lì, presente nei miei pensieri come nel mio cuore, così come il desiderio di gridargli quanto gli voglio bene da queste righe. Certo sono stata impegnata, cercando di imparare a diventare editrice, con risultati decisamente fallimentari - sembra proprio che la scrittura non sia la mia strada... Eppure bastano pochi minuti per scrivere un post - quando c'è l'idea! Quando non c'è, è assolutamente inutile persino provarci...

Ad un esame più attento del mio processo creativo (e qui mi batto la mano sulla spalla, "Brava Leti, brava! Processo creativo... mica spaghetti e mandolino!"), mi rendo conto che scrivo innanzitutto in situazioni di difficoltà, grandi o piccole che siano. Certo, precesso creativo piuttosto limitato... Tant'è! Non ho avuto idee in questi ultimi mesi fondamentalmente perchè sono stata bene, credo, occupata col lavoro, con gli amici, con la vita. Al punto che, quando la necessità si è fatta presente di tornare in Italia per qualche giorno, mi ha preso un po' il panico. Perchè tornare in Italia è sempre un giostra di emozioni: ho quasi timore di vedere in prima persona quello che cambia, chi cambia, e di scoprire se c'è ancora posto per me nella vita delle persone più care.

Siamo partiti, e come sempre, quello che è successo è stato troppo di più rispetto a quanto immaginato. Pur cambiati, i legami rimangono forti e saldi, la strada comune, e i desideri condivisi. Sono stati giorni pieni, belli. Al punto che non sarei più tornata in America, sarei rimasta a vivere lì - certo gli amici americani mi sarebbero mancati! Ma non si poteva fare... siamo ripartiti. E una volta tornati, abbiamo addirittura deciso di rimanere per qualche altro anno, firmando un nuovo contratto di affitto in attesa di firmare il contratto di lavoro di mio marito.

Credo dunque di aver perso la mia guerra, tacitamente ingaggiata con me stessa e mio marito tempo fa. Ero sicura che a quest'ora saremmo già stati in Italia da tempo, tornati alla vita che conosciamo in patria. Mi sbagliavo. Sicuramente  la decisione è stata sofferta.

Ma proprio perchè ho perso la mia guerra, mi rendo conto che mi alzo la mattina più leggera e libera di combattere la mia battaglia quotidiana per essere felice, per godermi questa vita e le persone che ho accanto, il mio piccolo lavoro e le mie piccole vicende umane. Proprio perchè ho perso la mia guerra, mi rendo conto che non ho più bisogno di calcolare le mie mosse, fare progetti e cercare di seguirli alla lettera, altrimenti finisco dove non ho pianificato. Proprio perchè ho perso la guerra, ho iniziato a vincere la mia battaglia quotidiana con la stessa drammaticità, certo, ma forse con meno paura, di sbagliare, perdere, non riuscirci, rimpiangere. Ecco, più forte.

martedì 4 febbraio 2014

"Una discussione è troppo veloce per i tempi del cuore"

Devo sinceramente ammettere di non aver mai creduto che gli uomini fossero capaci di riflettere in profondità su emozioni e sentimenti, specialmente quando si tratta di problemi di cuore. Non è che sia colpa loro. Semplicemente, sono uomini (grazie al cielo!). Hanno altre qualità. Cambiano lampadine, lavano la macchina, riparano elettrodomestici (a volte), e soprattutto uccidono i ragni che corrono sui muri di casa. Ad ognuno il suo. A noi donne viene meglio parlare, parlare, parlare. E ancora parlare. Per questo motivo, ogni qual volta mio marito ha provato ad offrirmi il suo punto di vista in merito a qualche storia o corteggiamento finito male (per colpa di lui), io l'ho spesso deriso. Se non addirittura insultato. Senza nemmeno ascoltarlo, a volte. Lotta di genere. 

In questi giorni in cui l'oceano ci divide ci è capitato di tornare per la medesima volta sull'argomento. Questo lo scenario, in breve: lui e lei si frequentano per qualche tempo, tutto sembra andare alla grande (secondo lei), finchè lui non si fa più sentire, sparisce, o peggio, dal nulla esce con una frase del tipo, "Meglio se non ci vediamo più, non vorrei che fraintendessi", o simili. Io ho sempre affrontato (e consigliato di affrontare) la questione di petto, scoprendo le carte in tavola ed esigendo una presa di posizione. Mio marito, invece, è di un'altra idea. Mi chiede, "Quante volte forzare la mano di lui ha portato ad un risultato positivo?" Pensandoci, la risposta è, mai. Continua, "Non è parlandone che uno si convince. Se i tempi non sono maturi, discurne non cambia nulla." Mi azzittisco per un attimo. "Che cosa vuoi dire?" chiedo. Aggiunge mio marito, "Una discussione è troppo veloce per i tempi del cuore." Ecco, è stato come un fulmine a ciel sereno. 

Quando mio marito, quattro anni fa, mi ha proposto di trasferirici in America, senza pensarci nemmeno un attimo ho risposto sì, contenta. Siamo partiti, e quello che è accaduto nei primi mesi, forse anni, non è quello che mi sarei aspettata. Ho faticato, pianto, rifiutato con tutta me stessa queste circostanze, questa vita. Non solo non la ho amata, la ho disprezzata, e odiata. E quante parole sono state spese da amici, conoscenti, sconusciuti, nei miei confronti, nel tentativo di forzare il mio cuore ad accettare ed affezionarmi a questo luogo e questa vita. Ma era inutile. Anche se volevo, non riuscivo, non ne ero capace. Il mio cuore sembrava non sapere come. Finchè un giorno all'improvviso mi sono accorta che tutto è cambiato. Meglio, io sono cambiata. Sono finalmente a casa. Il mio cuore ama di nuovo.

Dunque? Dunque occorre tempo, occorre tanta pazienza e tanta tenerezza, da parte nostra come da parte di coloro che ci sono accanto, perchè il nostro cuore finalmente ami quello che ha davanti perfettamente come desidereremmo fin da subito. Occorre non avere paura di quello che siamo o di come reagiamo, o di come ci muoviamo. Occorre ubbidire e piegarsi a quello che accade, scommentendo su quell'intuizione dell'inizio e il desiderio di bene che ci ha mosso allora, come ora. Il tempo sembra passare troppo lentamente, e nulla sembra cambiare. O accadere. E parlarne non accorcia i tempi. Un bel giorno, però, ci fermiamo a guardare, e ci accorgiamo che le cose accadono, e cambiano. Un bel giorno amiamo di nuovo, perfettamente, come più vogliamo, accompagnati da chi ci sta accanto e con noi scommette sul nostro cuore.


Dedicato alle mogli straordinarie che ho incontrato in questi anni di vita californiana.




mercoledì 15 gennaio 2014

Rosa Speranza

Sono mesi e mesi ormai che mi dedico al giardinaggio, in vaso per il momento, (eehhh.... al giardino ci pensa il giardiniere!) cercando di coltivare il basilico e il rosmarino. Lo so, lo so, mi hanno detto tutti che queste piante crescono da sole, che non c'è bisogno di curarle, e che praticamente è impossibile ucciderele. Tant'é, le mie sono morte tutte! Per cause naturali, povere piantine. O per malnutrizione? Maltrattamento? Mancaza di amore? Povera me! La scena, tra l'altro, si ripete sempre uguale. Compro la piantina (nel vaso), la metto in giardino di modo che prenda un po' di sole e la bagno regolarmente, le parlo, la incoraggio, “Vedrai, questa volta sarà diverso!" Ma dopo qualche settimana la piantina inizia intristirsi, cambia colore, fino a seccarsi. Muore. 

Perchè insistere allora? Evidentemente ho altri talenti. Ma il rosmarino! Nemmeno una piantina di rosmarino sopravvive in casa mia. Mi accorgo così che è diventata una sfida personale, una parabola che descrive questi ultimi anni. Come si dice che dicano in alcuni ambienti riabilitativi, il primo step è una piantina: se riesci a prendertene cura sei pronto per lo step successivo, un animale domestico. Se riesci a prenderti cura dell'animale, sei pronto per lo step finale: prenderti cura di un'altra persona. Ecco, sto cercando di provare a me stessa che sono pronta per il prossimo step (non letteralmente, non voglio un animale domestico!), e questi continui fallimenti non sono proprio la risposta che vorrei...

Delusa dalle piatine per la cucina, mi do ai fiori. Mia mamma, quando è venuta a trovarmi, ha riempito vasi di fiori e piante. Che sono tutti morti pochi mesi dopo la sua partenza. Ma sono rimasti i vasi. Ci vuole una pianta facile facile. Il ciclamino, penso. Quello rosso vive qualche settimana. Muore poi disidratato. Morte orribile. Quello bianco è più fortunato: resiste per qualche mese. Devo essere sulla strada buona. Decido così di rischiare: gerani rosa e pure un ciclamino rosa. Questa volta compro della terra buona, leggo bene le istruzioni, e sono fedele nella cura. Qualche mese dopo eccoli entrambi in fiore all'ingresso. Tutte le volte che esco o entro in casa e li intravedo, mi sale un sorriso alla bocca. Bellissimi. E soprattutto, ce l'ho fatta! Sono pronta per il prossimo step!

Arriva il momento di partire per le vacanze. Sono mesi ormai che i miei fiori rosa mi tengono compagnia rigolgiosi all'ingresso. Li sposto in giardino, dove verrano bagnati dal giardiniere durante la mia assenza. Torno dopo parecchie settimane e subito controllo il loro stato.  Il ciclamino vive (è davvero una pianta facile!), ma i gerani sembrano malati. Ne parlo subito con mia mamma, che conferma. Farfalline nere ovunque. Cosa faccio? Non ci sono insetticidi che funzionino in questo caso. Mia mamma mi suggerisce di tagliare via tutto, violentemente, sperando rifioriscano fra qualche mese. Ma potrebbe non accadere. Aiuto! Dopo tutta questa fatica, e illusione di aver fatto un passo avanti, mi viene un groppo alla gola quando, forbice in mano, condanno a morte i miei gerani. Ma sembra essere l'unica soluzione. E così taglio, taglio, taglio via tutto. Rimangono i gambi e poche foglie. Questa volta non ho fallito. Ho perso. Per quanto fossi pronta. 


Passano le settimane e non succede nulla. Io continuo a parlare coi miei gerani, porto loro acqua in abbondanza, e spero. Arriva il freddo, e anche le ultime foglie cadono. Natura spietata, penso. Per cosa mi sono impegnata dunque? È questa la legge della vita? È questo il fine? Cammino comunque verso la sconfitta? 

Sembra la parabola della lotta mia e di mio marito contro la malattia che mi impedisce di concepire. Bassi, poi alti, ma per sprofondare poi nell'abisso. Mi sento così stanca. Scoraggiata. Sconfitta. Al punto di non guardare nemmeno più i miei fiori quando entro ed esco di casa. 

Per questo motivo la sorpresa è ancora più grande quando un bel giorno mi accorgo che c'è del rosa: un piccolo fiore rosa sta iniziando ad aprire i suoi petali nel vaso all'ingresso, circondato da altri germogli pronti ad aprirsi al sole. Sono senza parole! Felice! Estatica! Mi fermo a contemplarli ogni giorno nella loro perfezione e voglia di vivere. Hanno vinto.

Sono solo fiori, è vero, ma in fondo sono molto di più: sono il colore e la forma della speranza. Non ho perso. Nonostante tutto, la vita ha vinto, germoglia e fiorisce. La natura risponde ad un Dio buono.





venerdì 10 gennaio 2014

Dov'è finito Margherita?

Ho lasciato la paffuta Margherita in un angolo del grande giardino dove è stata liberata, domandandomi se sarebbe stata bene in quel nuovo posto, dove vive libera, o se avrebbe rimpianto la sua piccola gabbia, dove è cresciuta e dove ogni giorno il suo padroncino andava a trovarla chiamandola per nome. 

I miei nipoti sono andati a trovarla, ma non sono riusciti ad avvicinarsi, a volte nemmeno a vederla. Corre e si nasconde, insieme agli altri conigli incontrati nel grande giardino. Sembra star bene, essersi fatta nuovi amici. Sembra anche aver dimenticato il suo nome. Forse, dopotutto, aveva ragione mio marito... Ma come può essere cambiata tanto?

Prima di trasferirmi in California ho sempre trovato piuttosto facile giudicare il cuore delle persone che mi stavano accanto, vicine o appena incontrate. Misurarne l'ampiezza e la profondità, la sincerità, il coraggio e le ferite. Senza margine di errore. Spesso queste misure si traducevano poi in una scala di valore: il suo cuore vale tanto, quello di lei, un po' meno. Il loro proprio poco. Punto e a capo. Ultima parola. 
Poi sono atterrata in America.
Dopo qualche mese passato a trovare la strada per uscire dalla nebbia inevitabile che un cambiamento così grande porta, ho iniziato a guardare. E mi sono accorta che forse vedevo male, non prestavo abbastanza attenzione. Vedevo un pezzo di cuore, e credevo invece che fosse tutto. Soprattutto vedevo ma non mi interessavo, non interrogavo sinceramente, non prendevo a cuore, appunto. 
Dunque? 
Dunque ho imparato che il cuore è smisurato, ricco, contraddittorio a volte; cambia e cresce, si allarga, abbraccia, dona, soffre, punisce. Ho imparato che è forse la cosa più amabile che mi venga continuamente offerta, qui, come ovunque vada. Ho imparato a non giudicarlo, di più, ad osservalo con benevolenza, ad essergli amica. E mi ritrovo così a tavola con persone a cui non avrei mai creduto di potermi interessare curiosa e contenta. 
Dunque ho imparato una parola nuova: appreciation.


Certo se avessi saputo la fatica che costa essere arrivata qui non so se sarei partita. Per fortuna la vita si svela piano piano. Così come il cuore. Anche quello della paffuta Margherita, così cambiato, o forse, semplicemente, svelatosi nel tempo!